VIVA VIVA ‘O SENEGAL

Ora possiamo dirlo: la stagione è terminata. Maggio lascia la propria strada e si porta in archivio, nonostante un’atmosfera dal freddo di autunno, in cui tuttavia qualcosa di allegro persiste, c’è ancora e non vuole andarsene. Spetta ora il compito di analisi, bilanci, riflessioni. Arriva il momento di calare il sipario su una stagione intrecciata di dubbi e sicurezze, ambizioni e situazioni di apprendistato dorato e pianificato per la cosiddetta “ragion di stato” talvolta confusa con aziendalismo. Nel calcio, tuttavia, non sempre le definizioni assumono i significati letterari.

Si sa, ogni scarrafone è bello a mamma soja e il Napoli non fa eccezione. Le polemiche non mancano, da quelle genuine a quelle strumentali, e i giudizi su singoli – ma anche quello collettivo in realtà – si  presentano disparati un po’ per voler sentenziare anche quando si tratta di un’opinione non richiesta, un po’ per cercare un fronte comune affinché si cominci un lungo e volenteroso lavoro di riconciliazione tra le varie parti, che inevitabilmente giocheranno un ruolo fondamentale a partire dal calciomercato oramai alle porte.

E il fronte comune va trovato, perché il rischio di rompere il giocattolo, qualsiasi tipo di giocattolo, è sempre dietro l’angolo e non è una questione tecnica, perché il Napoli potrebbe essere l’unico club tra le prime sei di Serie A (più la Lazio) a confermare in blocco Ancelotti e il suo staff. C’è una nebbia in giro, acceca l’evidenza di politiche datate e paradossalmente attuali che non hanno alcuna intenzione di favorire il buonsenso, nonostante l’essere abbindolati – al Sud è diventato sport nazionale – risulta semplice perché in fondo crediamo sempre alla cicogna. Confondersi è quotidiano, ma se tocca il Napoli, si rischia grosso.

Con il dovuto rispetto del proprio ruolo perché l’anarchia non porta da nessuna parte, l’ambiente non va minato e va cercato un compromesso comunicativo, perché gli animi vanno stemperati. È necessario partire dai punti inamovibili, dalle sicurezze diventate peculiarità e tuttora ricercate dopo l’addio di Hamsik e i venti retributivi che possono far vacillare, soprattutto se poi viene mancare quella fiducia che va più volte controfirmata, giusto per lanciare un prepotente segnale alla platea dei pretendenti.

E in un momento storico come questo, dove la società civile viene trascinata da un ingiustificato razzismo, suscita un grosso sorriso guardarsi la schiena, rovesciare il messaggio errato dei giorni nostri. Perché oltre ad essere forse il vero punto di riferimento della squadra, gli si attribuisce quel  significato che il calcio assume nei confronti della politica e della società incivile, soprattutto dopo averlo provato a proprie spese in quella notte dicembrina di San Siro.

Kalidou Koulibaly, franco-senegalese di cittadinanza napoletana, non ha chiuso la sua stagione: ha una Coppa d’Africa da conquistare con il suo Senegal. È diventato suo malgrado simbolo della lotta al razzismo e al tempo stesso ha dimostrato ampiamente di meritare l’investitura di capitano di una squadra stato d’animo di un popolo intero. Kalidou, uomo vero e leader silenzioso, non si è nascosto nella città contro il razzismo per antonomasia, figlia di una millenaria cultura fatta di tradizioni e mescolanze uniche al mondo. Grazie alla sua spiccata personalità e alle sue straordinarie doti difensive, unite a una stagione più che positiva per lui nonostante le lacune generali di una fase difensiva da rivedere, ha preso per mano il proprio reparto da grande guerriero e si è posto al centro del progetto da cui partire dopo un anno di approfondite valutazioni.

Se in tanti vanno discussi, esistono anche i punti fermi. Koulibaly non si discute, non ha troppe pretese e il Napoli ha il dovere di coccolarlo perché è diventato figlio-testimonial di appartenenza alla maglia, all’ambiente, alla città. Lui ha già più volte risposto presente, non intende tirarsi indietro; ha assunto un ruolo primario nella spina dorsale del progetto tecnico ancelottiano, sarebbe un errore irrimediabile – a meno che non si voglia sposare la mediocrità progettuale tecnica – privarsi di chi ha già vinto in amore e vuole ora farlo sul campo, senza ricorrere al cambio della casacca.

Ora la palla passa altrove, ma è una partita che non va disputata. Altre sono le “battaglie” in cui mettersi in gioco e ci sarà bisogno del vento prorompente del Senegal, a condizione che non venga trattenuto dove non meriterebbe di stare.

 Andrea Cardinale

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