La questione trova le proprie fondamenta in Inghilterra, più precisamente negli anni 80; gli ultras britannici all’epoca erano irrefrenabili e si rendevano responsabili di disordini di qualunque tipo, costringendo così la Lega locale ad applicare politiche di emarginazione, fondate però da un’ideologia razzista ed una struttura poco elaborata , in quanto i gruppi organizzati, secondo i giudici locali, erano formati da coloro che indossavano la divisa del proprio club. Quel tipo di abbigliamento fu del tutto bandito dagli stadi inglesi, ma gli ultras, da sempre un passo avanti, decisero di iniziare ad indossare capi differenti, nella maggior parte firmati, proprio come quella porzione di tifosi etichettati come “incolpevoli”. Uno dei brand che divenne un “must have” in quel periodo, fu Stone Island (tra l’altro brand italiano), il quale vendeva i propri capi a cifre abbastanza alte, ma soprattutto veniva acquistato anche dagli “inglesotti”. In questo modo, il tifo organizzato riusciva a non destare attenzione e, al contempo, poteva liberamente sostenere la propria squadra ed imbattersi nei soliti e storici confronti con le tifoserie opposte. Adesso è praticamente il contrario, in quanto ci si veste in un certo modo per definirsi un hooligan; le politiche di emarginazione persistono nel tempo, soprattutto in Inghilterra e, forse tempo fa, la situazione poteva essere affrontata più facilmente dagli ultras, tramite alcuni escamotage come quello citato pocanzi, visto comunque l’accessibile prezzo dei biglietti a fronte di quello attuale. Insomma, agli occhi di tutti, il mondo del tifo organizzato è molto più di ciò che si pensa di conoscere e molto probabilmente è il sinonimo più chiaro e limpido di amore verso la propria squadra e la propria città. Renato Oliviero