Tessera del Tifoso: metodo palliativo o metodo efficace?

Tessera del Tifoso: metodo palliativo o metodo efficace?

TESSERA – Il clima è temperato. È il 9 settembre del 2009. La formazione di Marcello Lippi è prossima all’incontro con la Bulgaria di Stanimir Stoilov. Terreno di gioco in condizioni ottimali, ma pur sempre arduo. Al 11’ del primo tempo, Fabio Grosso, favorevole la perfetta combinazione con Andrea Pirlo, realizza il gol del vantaggio. Impeccabili i tempi di esecuzione, cattedratico  il sinistro di Fabio Grosso. Al 40’ del primo tempo, il magistrale dialogo fra Gilardino e Iaquinta determina la rete del 2-0.
La sera di quel 9 settembre diviene spettatrice di un’Italia che dimostra, a se stessa e ai tifosi, d’essere determinata e soprattutto tignosa nel voler accorciare le distanze che la separano dalla Qualificazione ai Mondiali 2008/2009. Sebbene sia questa la primaria linea di lettura, il suddetto obiettivo non è il solo ad esser stato esplicitato. Di buon auspicio la massiccia presenza a Torino di giornalisti sportivi delle principali testate nazionali, la Federazione Italiana Giuoco Calcio decide di conferire concretezza al Decreto Ministeriale, Interno 15/08/2009 , G.U. 28/08/2009. Una concretezza che assunse le sembianze di una tessera, la tessera del tifoso.

La nascita della Tessera del Tifoso: dal Modello Thatcher al Decreto Maroni

Una breve premessa sul contesto storico
L’assunto determinante l’idealizzazione di una condizione entro la quale preservarne un’altra, è solo l’iniziale conoscenza di un circuito intricato e complesso. Con il termine “condizione” si desidera qui fare riferimento alla promulgazione della tessera del tifoso: una condizione entro la quale sentirsi al sicuro, una condizione attraverso la quale garantire sicurezza negli stadi. Sebbene fossero lodevoli, gli intenti determinanti la nascita del suddetto palliativo hanno dimostrato di essere manchevoli in più di un aspetto.
Ma procediamo con gradualità e soprattutto affidandoci all’assunto della sequenzialità. Affinché si possa profondamente comprendere la genesi del perchè della tessera del tifoso.
Correva l’anno 1885. Contestualizzare è determinante nella misura in cui avalla una consapevole simulazione della temporanea immedesimazione; difatti diviene al contempo significativo il ritorno al pensiero presente perché si possa ingenerare un minuzioso e critico confronto con i tempi trascorsi. Siamo dunque agli sgoccioli dell’Ottocento, periodo storico denso di mutamenti, categorizzazioni e complessità. La Seconda Rivoluzione Industriale impera e gli stili di vita della classe operaia sono forgiati all’insegna della forza e della violenza. Quest’ultimi ideali profondamente e moralmente interiorizzati, accettati.
Ideali che percorrono freneticamente il sentiero immaginifico della frivolezza, della spensieratezza. La working class, in parole più schiette, desidera del tempo libero da dedicare alle passioni personali. Fra queste, indubbiamente, vi è quella del calcio. Non a caso a Napoli, sul finire dell’Ottocento, si vocifera di un nuovo sport giocato dai marinai inglesi al campo provvisorio del Mandracchio, non molto lontano dall’attuale Via Marina. Non si parla di calcio, si parla di football. In Inghilterra, il football era una disciplina strutturata nella fattezza più moderna, già nel 1863. Un’ossatura tecnica e tattica che inizia ben presto a incontrare una molteplicità di fenomeni istituzionali e prevalentemente sociali: la Football Association (FA) viene fondata, il professionismo viene legalizzato nel 1885 e la violenza negli stadi muove i primi passi.

Il primo caso documentato di violenza negli stadi


Si era appena conclusa l’amichevole tra Preston North End e Aston Villa. Eppure la violenza non si lasciò intimidire e fece irruzione in campo. Bastoni, pietre, pugni e calci si precipitarono sui calciatori ancora in campo; un calciatore del Preston cadde al suolo privo di sensi. I documenti ufficiali archiviati raccontano di un’efferatezza senza precedenti posta in essere da coloro che quel giorno furono denominati “teppisti urlanti”. Quel giorno e negli anni a venire iniziò a prender forma il fenomeno del football hooliganism, ossia intendibile come la violenza competitiva e reciproca tra gruppi diversi di sostenitori socialmente organizzati.
Il fenomeno della violenza negli stadi ha da sempre incuriosito le menti critiche degli studiosi. La primaria perplessità ruota da sempre intorno alla causa e al perché di questo fenomeno. Le spiegazioni proposte sono molteplici e di varia natura, così come lo sono le azioni poste in essere per contrastare l’espressione di una violenza competitiva da stadio. Di seguito alcune delle cause identificate del football hooliganism, ma non per questo assolute.
Probabilmente perché la prestazione sportiva della propria squadra non ha soddisfatto le aspettative? Plausibilmente perché il costo del biglietto appare esoso se paragonato alla qualità proposta? Oppure e più banalmente la violenza era l’esasperata espressione di una mascolinità insana dell’epoca vittoriana?
Tuttavia e seguendo la personale linea di pensiero, le ipotesi di cui sopra sono assimilabili a delle giustificazioni. Siamo davvero certi che la violenza meriti giustificazioni? Piuttosto, desidero proporre e dunque condividere una riflessione costruttiva.
La riflessione non prevede e non contempla giustificazioni bensì spiegazioni, delucidazioni. L’ipotesi primaria che funge da supporto a tale e personale idea risiede nel credere fermamente che agire a valle di un problema non lo risolve. Agire a monte di un qualsivoglia processo può indurci alla piena consapevolezza del perché.


Modello Thatcher e Decreto Maroni: metodi palliativi o metodi efficaci?


Ricorderete quando in prima battuta ho ribadito quanto i metodi palliativi e punitivi si siano mostrati smemorati, manchevoli e sprovveduti in consapevolezza del contesto. Era il 1966 quando ci si rese conto dello stato di salute fortemente precario in cui versava il calcio nel Regno Unito. La fenomenologia del teppismo si ampliava e le prime misure di protezione ma soprattutto di contrasto iniziarono ad essere abbozzate. Telecamere a circuito chiuso, l’introduzione dei seggiolini – perché prima allo stadio si stava in piedi – le stanze di detenzione, l’accettazione assoluta delle decisioni del corpo arbitrale. Tutte misure immaginate all’insegna della repressione. Un po’ come nascondere la polvere sotto il tappeto. Reprimendo si dimentica e dimenticando si smarrisce la consapevolezza di tutto quel che ci circonda.
Difatti, la precarietà e la caducità degli impianti sportivi non è mai stata presa in considerazione come variabile facente parte di un processo di colpevolizzazioni più intricato. Nel 1924, un anno dopo la finale di Fa Cup disputata a Wembley tra West Ham e Bolton, fu condotta la primissima indagine concernente le carenze strutturali. Il dato che ne emerse è considerabile ancora oggi allarmante: 200mila persone accorsero nell’impianto sportivo. Il calcio d’inizio di 46 minuti fu rinviato per consentire alla polizia di liberare il terreno di gioco spingendo la folla all’esterno delle linee laterali.
Fu poi la volta del Disastro di Burnden Park, teatro di una delle tragedie del calcio inglese. Morirono 33 persone. Quel giorno si comprese ma non fino in fondo l’importanza di valide vie di fuga utili al deflusso degli spettatori e non solo. Nessuno stadio sarebbe dovuto essere aperto senza l’autorizzazione comunale. Nessuno stadio sarebbe stato dichiarato sicuro senza aver prima fissato un numero massimo di spettatori ammissibili all’interno della struttura.
Quando Margaret Thatcher conquistò il potere da primo ministro inglese, era il 1979. La situazione dinanzi ai suoi occhi non era di certo fra le più rosee. Tuttavia, non scelse di affrontarla con toni moderati e volti al miglioramento. Dopo aver preso visione degli scontri tra gli hooligan di Luton Town e Millwall, la Thatcher convocò un riunione urgente con la federazione. Ne emerse un programma composto da 6 punti incentrato, ancora una volta, su misure rafforzative e repressive. Ampliare il sistema di videosorveglianza, vietare la vendita di bibite alcoliche negli stadi, conferire maggiori poteri alla polizia, migliorare le recinzioni, aumentare il numero di all-ticket match e introdurre l’uso delle carte di identità.
Nel 1989 il Football Spectators Act avviò la National Membership Scheme, una schedatura posta in essere mediante la carta di identità. In tal senso si obbligavano i tifosi di tutte le società ad usufruire di una tessera per entrare negli stadi. Chi ne fosse stato sprovvisto avrebbe commesso un reato e rischiato fino a un mese di detenzione.

Sebbene il Decreto Maroni sia stato varato in un periodo lontano da quello inglese, prosegue sulla medesima linea direttiva e d’azione. Varato il 14 agosto 2009, il Decreto Ministeriale Interno 15/08/2009 , G.U. 28/08/2009, sanciva la predisposizione della Tessera del Tifoso e dunque di una schedatura obbligatoria. Il possessore della Tessera del Tifoso avrebbe goduto di alcuni vantaggi come poter presenziare alle trasferte, avere a disposizione una corsia preferenziale di accesso allo stadio, usufruire di promozioni e offerte esclusive. La Tessera del Tifoso ideata da Roberto Maroni avrebbe dovuto garantire una maggiore sicurezza negli stadi.

Intento non raggiunto pienamente. Non soltanto perché eventi tragici si sono verificati ugualmente, si ricordi la morte di Ciro Esposito durante la finale di Coppa Italia del 3 maggio 2014. Il Modello Thatcher e il Decreto Maroni esasperano le differenziazioni sociali, non generano inclusione, ampliano le distanze fra gli spalti e il campo di gioco e corroborano dinamiche di potenziamento economico unidirezionale. Le strutture sportive vanno migliorate sia per una questione di sicurezza sia per accrescere un sentimento di appartenenze e non di frustrazione. Gli spettatori si sentirebbero sinceramente presi in considerazione, valorizzati e ascoltati nelle loro esigenze più profonde.

Sebbene una sincera inclusione non possa risolvere interamente la problematica della violenza negli stadi, potrebbe senza dubbio mitigarla, indebolirla. Sarebbe un punto di partenza non finalizzata alla repressione, già posta in essere dal comportamento violento stesso. Alla violenza non si risponde con ulteriore violenza. Perché, come affermato sin dall’inizio, il contesto è importante, esattamente come quando si è bambini. Perché non si nasce violenti, è anche il contesto a determinarne un’eventuale espressività.

Foto: Sito “dailymail.co.uk”

Martina Mauro

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