Supercoppa in Arabia Saudita, come barattare libertà e diritti per i petroldollari
La decisione di disputare la finale di Super Coppa Italiana in Arabia Saudita sembra un gesto di apertura verso un paese ricco di soldi e petrolio ma povero di libertà e diritti civili. Se si trattasse di un’iniziativa, simbolo di un processo di democratizzazione del mondo arabo, ben venga. Ma a quanto pare sarebbe soltanto l’ennesima manifestazione di ipocrisia da parte di un Paese occidentale nei confronti di un regime monarchico e teocratico del Medio Oriente
Era il 2 dicembre del 2010, quando a Zurigo nella sede della FIFA, sono stati assegnati i mondiali 2022 al Qatar (con successiva polemica in merito a presunti casi di corruzione di alcuni dirigenti della FIFA per favorire la scelta dell’emirato come paese ospitante della manifestazione sportiva). Nel 2011 il Paris Saint Germain è stato acquistato dal fondo sovrano qatariota Oryx Qatar Sports Investments, gestito da Nasser Al-Khelaïfi ministro senza portafoglio dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani.
Tre anni più tardi, il 22 dicembre 2014 a Doha (capitale dell’Emirato arabo), si è disputata la finale di Supercoppa Italiana tra il Napoli e la Juventus. Due anni dopo, nel 2016, Salman bin Ibrahim Al Khalifa membro della famiglia reale del Regno del Bahrein, ha perso la sfida per la presidenza della FIFA (vinta da Gianni Infantino) di cui è attualmente uno dei vice presidenti.
Sono solo alcuni dei casi più importanti che evidenziano la volontà degli sceicchi medio orientali di investire nel calcio europeo che conta. Negli ultimi anni le “infiltrazioni” arabe nell’ossatura imprenditoriale e dirigenziale del calcio mondiale è aumentata a dismisura. Del resto è stato un fenomeno inevitabile. La globalizzazione ha giustamente investito anche lo sport e anche i paesi arabi hanno dovuto aprire le loro frontiere finanziarie per investire all’estero i famosi petroldollari.
Eppure, questa loro spregiudicatezza capitalistica va a cozzare contro dei sistemi statali arretrati e incivili. Un paradosso che non è nuovo nonostante siamo entrati nel 2019. Sono tanti i paesi che nonostante abbiano un’economia liberista, al loro interno continuano ad esprimere sistemi anti democratici e dittatoriali. L’Arabia Saudita è una di queste nazioni. Essa è la monarchia più potente e ricca del Medio Oriente. La sua dinastia è quella che detiene la supremazia religiosa sul mondo musulmano sunnita (in perenne scontro con quella sciita che vede come massimo rappresentante l’Iran).
E proprio in Arabia si giocherà la prossima finale di Supercoppa Italiana. Per l’occasione le donne potranno entrare nello stadio King Abdullah Sports City di Gedda solo in alcuni settori. Questa decisione da parte della Lega Calcio ha destato molte polemiche. Perché in Italia prendono vita azioni contro il razzismo e la violenza sulle donne, quando poi si stabilisce di giocare una partita così importante in una monarchia che non rispetta i diritti civili, oltre che delle persone di genere femminile, anche delle minoranze etniche e religiose? Dove esiste ancora la pena di morte? Dove democrazia e laicità sono calpestate dal wahhabismo, corrente integralista dell’Islam sunnita diffusa proprio grazie ai soldi dell’Arabia Saudita?
La risposta è semplice: l’Italia incassa dai sauditi oltre 3 miliardi e mezzo all’anno per le esportazioni. Solo per le armi, il Belpaese ha incassato da Riad ben 1 miliardo e mezzo negli ultimi 7 anni. Cifre da capogiro e non certo spiccioli. Bisogna però riconoscere che l’attuale principe erede al trono Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd (nominato tale proprio dal padre e Re attuale Salmān bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd) ha dato una spinta non indifferente verso la modernizzazione del paese.
Infatti, dopo il fallimento delle Primavere arabe che hanno investito tutto il Medio Oriente (e non solo, anche il Nord Africa), nel 2011 in Arabia Saudita ci sono state aperture importanti di cui alcune proprio nei confronti delle donne. Ad esempio, fino allo scorso anno, alle donne l’ingresso in uno stadio era completamente vietato. Sempre nel 2018 è stato loro concesso di guidare la macchina, andare al cinema e intraprendere carriere artistiche (sempre con il consenso del padre o del marito). Da questo punto di vista, la decisione di giocare la la finale di Supercoppa Italiana a Gedda, potrebbe essere intesa come un gesto di incoraggiamento nei confronti di un paese avviato verso importanti cambiamenti politici, sociali, culturali e civili.
In realtà, potrebbe anche trattarsi di una sorta di compensazione geopolitica. Attualmente tra Arabia Saudita e Qatar non ci sono buoni rapporti. Tra i il regno e l’emirato è in corso una sorta di “Guerra fredda” con i sauditi che hanno attivato un embargo nei confronti dei qatarioti. Il motivo? Il Qatar è stato accusato dall’Arabia Saudita di avere relazioni con l’acerrimo nemico: l’Iran. Dunque, se Doha avrà i mondiali, anche Riad dovrà iniziare ad ospitare eventi calcistici di rilievo.
Di conseguenza, bene per l’incoraggiamento, peccato che l’Italia abbia dimenticato una piccola cosa: il principe Moḥammad bin Salmān ha scatenato una guerra contro lo Yemen, un conflitto che sta provocando una vera e propria crisi umanitaria, con un popolo ridotto a fame e carestia dal 2015. Probabilmente ai dirigenti federali italiani sarà anche sfuggito il clamoroso e gravissimo omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, voce libera e dissidente del regno saudita.
Insomma, ci troviamo di fronte ad uno dei tanti gesti, da parte di un paese occidentale, che incarnano un paradosso: aprirsi economicamente verso altri paesi, chiudendo un occhio nei confronti dei loro regimi. Probabilmente possono anche essere letti come iniziative di incoraggiamento verso i tentativi di modernizzare questi paesi. Ma lasciatemi dire una cosa, o meglio porre una domanda: se la finale di Supercoppa si giocasse a Tel Aviv in Israele (unico paese liberale, laico e democratico della penisola medio orientale) cosa sarebbe successo?
Ve lo dico io, si sarebbe scatenato l’inferno. Perché al mondo arabo (islamofobia a parte) si giustifica tutto, un buonismo più forte di una radicata ossessione anti israeliana e anti occidentale. A colpirmi, però, è un altro aspetto: i principali esponenti di queste correnti e movimenti sono proprio molti occidentali. Ed è questa, forse, la contraddizione più grande.
Andrea Aversa