Sportwashing, la finta “pulizia”

Sportwashing, la finta “pulizia”

Può lo sport essere uno strumento per ripulire la propria immagine pubblica? Senza dubbio lo è, lo è stato e lo sarà sempre. Quanti i paesi autoritari accusati di violazioni sistematiche dei diritti civili a cui è stata data la possibilità di coprire le proprie nefandezze? Tanti, troppi. Attraverso i tornei sportivi automaticamente hanno provato a pulirsi l’immagine o hanno, per un poco di tempo, messo a tacere i crimini puntualmente da loro inferti come la repressione violenta del dissenso, i genocidi e altre oscenità e amenità varie. I giochi olimpici di Pechino, non a caso, apriranno l’annata sportiva 2022, la Coppa del Mondo la chiuderà.

Paesi come Cina, Qatar e Arabia Saudita, sempre criticati per le sistematiche violazioni dei diritti umani, utilizzeranno eventi sportivi prestigiosi per dare lustro e limpidezza alla propria immagine davanti ad un pubblico globale che in buona parte ignora o mostra scarso interesse per le vicende socio politiche dei paesi ospitanti. Questo sistematico processo prende il nome di sportwashing, un termine scelto e voluto da Amnesty International nel 2018 per sottolineare l’uso scorretto di governi oppressivi dittatoriali per ripulirsi la faccia, per fare sfoggio di potere, ricchezza e innovazione, ma soprattutto uno strumento utilizzato per allontanare e distogliere l’attenzione del mondo dal sangue da questi versato al luccichio sfavillante degli stadi.

Se andiamo indietro nel tempo ricorderemo, senza dubbio, i giochi olimpici del 1936 a Berlino, sotto il regime nazista, voluti fortemente da Hitler, con l’unico e solo scopo di dimostrare la superiorità ariana tedesca nei confronti del mondo. Pratica, questa dello sportwashing, diffusa, quindi, da circa 100 anni. Il 4 febbraio la Cina ospiterà le olimpiadi invernali. A tutti è ben noto, ma poco importa, il disumano regime di Xi Jimping nei confronti dei musulmani ulguri confinati nei campi di rieducazione e di lavoro nella regione occidentale dello Xinjiang, i vari tentativi dello stesso, poi riusciti, di prendere il controllo politico di Hong Kong, fregandosene di attendere il 2049 come da accordi stabiliti, le continue minacce a Taiwan e la scomparsa della tennista Pengi Shauai.

Paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Australia hanno espresso apertamente la volontà di non inviare in Cina rappresentanti del proprio governo, ma permetteranno tutti ai loro atleti di partecipare e gareggiare, rendendo quindi i boicottaggi diplomatici più un gesto formale che non un gesto di forza.  Francia e  Italia invece non aderiranno proprio al boicottaggio. Putin, in merito, si è espresso sottolineando che il boicottaggio è un errore, sottolineando le minacce non proprio velate della Cina, comunicato stampa ufficiale infatti, che avrebbe fatto pagare caro a tutti il prezzo delle loro scelte.

Il Qatar, che ospiterà il mondiale tra il 28 novembre e il 19 dicembre, mostra una situazione simile alla Cina, anzi detiene il record di violazioni dei diritti umani. Un’inchiesta del Guardian dello scorso febbraio, ha rivelato che più di 6500 lavoratori migranti provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sono morti tra il 2010 e il 2020, la maggior parte di loro mentre lavoravano alla costruzione delle infrastrutture destinate ad offrire al mondo la nuova immagine del paese. Bilancio stilato questo, che sembra addirittura essere sottostimato, perché non include i lavoratori kenioti, somali e filippini largamente anch’essi utilizzati.

Dunque centinaia le persone provenienti da Asia e Africa che hanno lasciato la pelle nella costruzione degli stadi, centinaia di persone impiegate in progetti legati all’evento che hanno atteso invano di essere remunerati dello stipendio. Stipendio per alcuni arrivato solo dopo scioperi repressi con brutalità e giorni di carcere. Non parliamo delle baracche di  lamiera prive di acqua corrente in cui tali lavoratori sono stati costretti poi a vivere.

La dignità dell’uomo dov’è finita? La giustizia è lì una dea bendatissima? In Qatar esistono restrizioni alla libertà di espressione, lavori forzati, criminalizzazione delle relazioni omosessuali, impunibilità di reati di violenza contro le donne e tanto, tanto altro ancora. E non sembrano queste violazioni già sufficienti per intervenire? La dichiarazione del 30 dicembre del presidente della FIFA Gianni Infantino, riguardo il mondiale in Qatar, che sarà “la celebrazione del calcio e dell’inclusione sociale; lavoreremo sodo per non dimenticare quelli che hanno bisogno e che non hanno voce, proteggendo la crescita sana di tutti e il movimento calcistico mondiale“ fa davvero rabbrividire e gelare il sangue.

Il potere dei soldi di tappare le orecchie e di bendare gli occhi sembra avere vita eterna. Ancora il giovane spietato erede al trono Mohammad bin Salman del regno di Salman bin Abd al-Aziz Al Sa ud ha speso miliardi nell’organizzazione di eventi di altissimo livello mirati a rafforzare la sua reputazione e diversificare la sua economia, per eliminare la dipendenza dal petrolio e gas. Tra i  suoi recenti acquisti il New Castle United.

Forse il suo il tentativo più riuscito di sportwashing, in quanto fornisce ai sauditi una posizione influente nel campionato di calcio più amato e seguito al mondo e la più grande opportunità di  “pulizia” per un paese coinvolto nel brutale assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, per il ruolo devastante ricoperto nella guerra in Yemen, guerra più grave della seconda guerra mondiale, e la più classica repressione di intellettuali, riformatori e attivisti per i diritti delle donne.

I petral dollari dell’Arabia Saudita difficilmente possono essere ignorati dalle federazioni sportive, sono un polo di attrazione troppo forte. Ricordiamo che la stessa Arabia Saudita ha chiuso l’accordo decennale di 650 milioni di dollari per ospitare il Gran Premio di Formula 1, ha investito milioni di dollari in un evento di golf, ha ospitato importantissimi incontri di boxe, tra cui la sfida del secolo tra Anthony Joshua e Tyson Fury. I casi di Sporting washing non  finiscono qui, tanti quelli minori ma non da sottovalutare, come i preoccupanti legami degli Ultimate  Fighting Championships con il dittatore cileno  Kadyrov, dell’NBA con l’autocrate ruandese Paul Kagame, la partnership quinquennale dell’NFL con la Cina.

L’unico modo quindi per combattere queste finte pulizie, queste subdole propagande è cercare di fare informazione, attivismo in larga misura. Coinvolgere e  portare a conoscenza della reale situazione delle cose resta l’unico strumento per abbatterla

Francesca Tripaldelli

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