Oggi forse è chiaro a tutti quanto siano essenziali i tifosi nel calcio

 

Spesso si parla per sentito dire e superficialmente vengono dati giudizi che dimostrano la grande lontananza dai fenomeni descritti. E’ fondamentale studiare da vicino i fenomeni, non dare  giudizi  affrettati,   scavare a fondo nelle cose dando valore ai dettagli. Il calcio è un fenomeno sociale, bisogna eliminare i preconcetti, abbattere questi muri d’ignoranza e conoscere in prima persona i fatti.

Tutto comincia con una domanda.

Perché il gioco del calcio ci fa emozionare?

La risposta apre nuove riflessioni: cosa sarebbe un match di Champions League, Serie B, Serie A, Premier League, senza il pubblico?

Stiamo vivendo nel post Covid 19 un calcio strano, senza tifosi, e ne stiamo capendo la grande importanza.

Come si fa a spiegare al mondo che tifare non è un’imposizione ma un’occasione, non è un obbligo ma una conquista, non è una punizione ma un premio condiviso e regalato a tutti noi. Da troppi anni i global leader stanno riducendo tutto al benessere materiale e al benessere dei bilanci societari, trasformando il calcio in una lotta per l’accaparramento di un prodotto “not for everybody”. La realtà di questa imposizione ha assicurato a tutte le società di calcio grande ricchezza, causando una guerra fatta di esclusione e politiche repressive. Come in tutte le guerre, essa ha vincitori e vinti: i vincitori, chiassosi e superbi, appaiono risplendere di gloria e di luce; nell’ombra, la folla dei vinti, degli esclusi, i naufraghi dello sviluppo, costituiscono masse sempre più fitte. I limiti politici, tecnici di questo progetto si rafforzano vicendevolmente e trasformano il calcio in un incubo. Soltanto un reinnesto di queste distorte politiche potrebbe consentire di sfuggire a cupe prospettive. Stiamo diffondendo una cultura che si basa sul divertimento d’élite, sulla soddisfazione del più ricco, cullati dalla melodia del “modello inglese”. Si dovrebbe costruire un calcio in cui tifosi di classi sociali diverse si guardino non come potenziali nemici ma come potenziali “partner”, tutti membri di una grande famiglia umana, uniti da una catena dalle maglie sempre più fitte. L’economicizzazione del mondo, cioè la trasformazione di tutti gli aspetti della vita in questioni economiche, porta in un tunnel buio dove difficilmente si intravedrà la luce.

Viviamo nella società dell’iperrealtà, ovvero in una dimensione che ci riconduce tutti sullo stesso piano: individui “intrappolati” in una rete “invisibile”. Nell’immenso alveare del cyber-spazio siamo soggiogati e perdiamo la nostra facoltà di pensiero e di memoria, assopiti in un mondo che non esiste ma che allo stesso tempo è reale per tanti di noi. Un mondo fittizio. Ne consegue che la nostra vita è sempre più artefatta e superficiale. Siamo schiavi della tecnologia e di chi la usa come strumento per dominarci in modo assoluto e totalitaristico. A tal proposito l’immagine che i global media vogliono far emergere dei tifosi di classi mediobasse  è quella della violenta.

La presa di posizione dei global leader del football assume toni da crociata, da messianismo mediatico. Più in generale, poi, l’enfatizzazione degli episodi di intolleranza può agire come un meccanismo di rinforzo sulla popolazione autoctona, sottolineando continuamente la percezione di una linea di confine netta tra tifosi da tribuna e tifosi da curva. Tale suddivisione più o meno inconscia in out-group e in-group può favorire l’ulteriore diffusione di ideologie razziste.

Sembrerebbe proprio questa una delle vie attraverso le quali il razzismo, almeno nella sua forma latente, diviene un sentimento quotidiano che infonde e permea la vita e le sensazioni della gente. Certo non siamo qui a dire che i media costituiscono univocamente il principale fattore di riproduzione del razzismo ma come psicologia e sociologia hanno da tempo mostrato, l’attore sociale procede, nel suo quotidiano confrontandosi con la complessità dell’esistenza, attraverso costanti “tipizzazioni”.

I media queste tipizzazioni le sedimentano e le irrigidiscono, circondandole di un alone di ufficialità comunicativa che le rende sacre e intoccabili.

Questo processo può operare secondo due modi apparentemente contrapposti: in maniera diretta e consapevole oppure indirettamente e inconsapevolmente, attraverso un overloading comunicativo che, generando un surplus di piano morale, finisce col suscitare reazioni del tutto opposte a quelle attese.

D’altra parte come hanno sostenuto McLuhan e Powers, più che i messaggi, sembra essere la stessa configurazione del contesto a costituire la propaganda, e tale contesto appare sempre più influenzato non tanto dai contenuti dell’informazione, quanto dalle modificazioni che questa apporta alla “geografia situazionale” della vita sociale. Quando un fenomeno sociale diviene spazio mediatico, esso influisce di per sé sulle relazioni dei singoli, le orienta quando non le determina, indipendentemente dai contenuti scientificamente impressi dalle fonti informative.

Il contesto in cui il pregiudizio si manifesta è pilotato quindi dai global leader e dall’information.

Il pericolo dell’affermarsi di un’idea di “comunità ristretta”, di valori di solidarietà e uguaglianza da intendersi in maniera sempre più stereotipata e da praticarsi su scala sempre più ridotta, di paese, regione, città o quartiere, minaccia non solo il progetto del Welfare ma le basi stesse della democrazia e del suo metodo; metodo che presuppone l’interazione e la ricerca dell’interazione, con l’altro, con chi ha diversi “scopi” e interessi diversi e la pensa spesso in modo diverso.

Argomenti indimostrabili ma carichi di una suggestività densa e profonda, che ricorrono con estrema frequenza nelle pagine locali, nelle campagne elettorali, nelle chiacchiere da bar o da talk-show, in qualche modo – in molti modi, forse – fanno un ritratto della questione in negativo a causa dell’esistenza di pregiudizi che acuirebbero il senso d’allarme. Spesso siamo intrappolati in eco-chamber, situazioni in cui l’informazione, le idee, le credenze, sono amplificate o rafforzate dalla ripetizione all’interno di un sistema definito.

Nella realtà, è difficile non dar peso alla sponsorizzazione politica contro i tifosi da curva, vuoi in forma economica, vuoi in forma simbolica che conduce fatalmente a un irrigidimento che nega la complessità dei fenomeni che si intende rappresentare.

Gli interessi reali e il clima d’incertezza che caratterizza le società contemporanee influenzano i loro orizzonti simbolico-comunicativi e concorrono alla formazione di pregiudizi.

Il tema del tifo è il perno centrale intorno al quale ruota il business milionario del calcio. Ricostruzione degli impianti, settori popolari rimpiccioliti e tribune immense stanno cercando di far diventare il calcio solo ed esclusivamente business.

In questo scenario, dove il ceto medio-basso non conta più nulla, e dove le pay tv e i guadagni sono l’unica cosa che contano, ne sta perdendo e ne perderà la semplicità e quei principi sani che facevano del “pallone” uno splendido sport. Per far sì che tutto ciò accada senza proteste, il discorso  è stato molto pilotato. I mezzi di comunicazione gestiti dai global leader soffrirebbero di una sorta di “strabismo”, omettendo le azioni positive del tifo, perché queste non farebbero notizia.

Una battaglia puramente reattiva, si porrebbe l’obiettivo di agire direttamente sull’origine di comportamenti devianti o microcriminali andando fino in fondo nella lotta. La Uefa e la Fifa non sembrano perseguire questa strada, accontentandosi, in concreto, di retate e di periodici decreti (tessera del tifoso, codice comportamentale). Ciò che essi sembrano invece cogliere appieno è l’enorme valenza simbolica che il sistema mediatico (e quindi l’opinione diffusa) ha da tempo conferito ai tifosi da curva, riservandogli i “migliori” spazi informativi. La leadership del football utilizza strumentalmente la questione della violenza per “bucare” il sistema informativo e conseguire così una più ampia presa sull’opinione pubblica. Con ciò si vuole semplicemente affermare che il circuito della comunicazione non solo prevale sull’esperienza diretta, ma funge anche da orizzonte di riferimento nella selezione degli argomenti su cui investire risorse.

Chi governa il calcio costituisce un espediente tattico, secondo il principio l’unione fa la forza. Le basi vere sono il potere, il business, la ricchezza di quella cerchia di persone che vorrebbero gestire il world football per i propri tornaconti. Evidente è come la cultura personale e politica giochi un ruolo di rilievo insieme allo status economico, che poi è la vera arma vincente.

Il Covid 19 involontariamente e in maniera inaspettata ha fatto “saltare il banco” dimostrando come il calcio con gli stadi vuoti riduce l’appeal e gli introiti di decine di milioni di euro. Nel nuovo secolo si è venuta a creare la così detta Mass Self Communication, una comunicazione che raggiunge un’audience globale auto-generata, auto-diretta e auto-selezionata. Bisognerebbe essere coscienti di questo e provare ad andare oltre la tendenza, provare ad avere uno sguardo più critico della realtà.

Rompere il limite gnoseologico è certo un primo passo ma quel che più conta è sviluppare una critica all’economia politica dell’opinione pubblica, dove produzione, consumo e distribuzione funzionano come un vortice che «cattura», risucchiandoli, i desideri, i pensieri, le aspirazioni, l’intelligenza presenti nella comunicazione. È solo attraverso un’accorta ed efficace critica dell’economia politica dell’opinione pubblica, riunificando ragione e sentimento, che si può immaginare una democrazia che non tracimi nell’oligarchia e soprattutto si può immaginare di sfruttare in maniera positiva un evento che ha devastato il mondo e che porterà sicuramente ad una riflessione generale. E’ arrivato l’ora di dire basta a politiche che hanno come risultato un ipersviluppo per la potenza seduttrice (global leader) e un sottosviluppo per la popolazione sedotta (tifosi). Oggi la parola d’ordine  deve essere inclusione, perchè il calcio è una maglia senza colore e senza nazione che ognuno di noi ha sognato di indossare.

Il calcio è  il sorriso di chi dimentica di non avere niente perché grazie a lui, per qualche secondo, ha avuto tutto. Il calcio siamo noi che sorridiamo, senza soldi e senza santi in paradiso. 

Tutto questo servirà a smuovere qualcosa in voi con la speranza che ci si possa incontrare in Curva, perché due voci sono meglio di una, quattro sono meglio di due e otto sono meglio di quattro.

Giovanni Pisano

 

 

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