ISIS, IL PRIGIONIERO CON LA MAGLIA DEL NAPOLI PRIMA DI ESSERE DECAPITATO
A «sud di Roma», come dicono minacciosamente i terroristi dell’Isis, in un altrove vicinissimo, c’è un uomo che viene decapitato dai boia, e questa volta non ha la tuta arancio Guantanamo ma una maglietta del Napoli. L’orrore che sta diventando seriale fino a confondersi con le nostre fiction, indossa la maglia di Higuain e Hamsik. È un caso, le magliette vengono distribuite dalle associazioni umanitarie in Iraq, che si fa dettaglio emotivo nella messa in scena della violenza terrorista. C’è, però, nella metastasi caotica del terrorismo, nel rituale di violenza, un elemento distraente, ed è proprio quella maglia da calcio. Che sia un falso o no, che ci sia un fotomontaggio o meno, che l’azione esista o no, c’è un iperrealismo che preoccupa, e c’è da parte dei terroristi dell’Isis una appropriazione dell’estetica occidentale, a volte involontaria a volte ricercata. In questo caso salta agli occhi che il calcio – per alcuni vera e propria religione – entri in una esecuzione.
La vittima – vera o presunta – è bendata e indossa la maglia del Napoli, che nelle azioni successive verrà sporcata dal sangue. Proprio come il Mediterraneo, che bagna le coste libiche dove sono stati uccisi ventuno egiziani l’altro giorno. Una sovrapposizione di orrori da macelleria che conosciamo attraverso le serie tv e i film, e che purtroppo in queste settimane stanno diventando realtà.
La maglietta da calcio è un dettaglio che ci fa misurare la vicinanza, tra noi e loro, non c’è una chiamata in causa dell’Italia e della città di Napoli, ma c’è una contemporaneità che si consuma nel particolare. Una coincidenza che se non imputa coinvolgimento comunque inquieta. Siamo abituati a vedere quella maglia in circostanze diverse, dal campo agli spalti, non sotto il tiro di un mitra né a portata di taglio di un coltello. La maglia diventa allegoria e testimone, ci trascina in quella terra, sconosciuta, e sporca l’immaginario consueto che lega le persone a quei colori, a quelle scritte. Sì, certo il calcio non è immune alla violenza, ma ha modalità e linguaggi differenti. E nonostante questo, spesso, proprio il calcio, i suoi attori, sono stati un tramite per il dialogo: tutti ricordiamo i sequestratori di Giuliana Sgrena impressionati da Francesco Totti che scese in campo con la maglia che ne chiedeva la liberazione. Con queste immagini si stabilisce, invece, una equivalenza – non sappiamo neanche quanto volontaria – tra il calcio italiano, la squadra del Napoli, e una vita sacrificata, in un campo differente. In quella maglia c’è una dinamica sociale complessiva che riassume meglio di ogni altro simbolo l’Occidente: attraverso il calcio passano mercato e sentimenti, fino a farsi motivo effimero di scontri virtuali, verbali, reali. L’incongruenza è ritrovarsi quella maglia in un regolamento di conti non calcistico, avulso dal pallone, che diventa vessillo drammatico in una contrapposizione violenta. Per una oscura trama, il concetto giusto diventa indumento sbagliato che accompagna l’ultimo tempo di un uomo.