La vittima – vera o presunta – è bendata e indossa la maglia del Napoli, che nelle azioni successive verrà sporcata dal sangue. Proprio come il Mediterraneo, che bagna le coste libiche dove sono stati uccisi ventuno egiziani l’altro giorno. Una sovrapposizione di orrori da macelleria che conosciamo attraverso le serie tv e i film, e che purtroppo in queste settimane stanno diventando realtà.
La maglietta da calcio è un dettaglio che ci fa misurare la vicinanza, tra noi e loro, non c’è una chiamata in causa dell’Italia e della città di Napoli, ma c’è una contemporaneità che si consuma nel particolare. Una coincidenza che se non imputa coinvolgimento comunque inquieta. Siamo abituati a vedere quella maglia in circostanze diverse, dal campo agli spalti, non sotto il tiro di un mitra né a portata di taglio di un coltello. La maglia diventa allegoria e testimone, ci trascina in quella terra, sconosciuta, e sporca l’immaginario consueto che lega le persone a quei colori, a quelle scritte. Sì, certo il calcio non è immune alla violenza, ma ha modalità e linguaggi differenti. E nonostante questo, spesso, proprio il calcio, i suoi attori, sono stati un tramite per il dialogo: tutti ricordiamo i sequestratori di Giuliana Sgrena impressionati da Francesco Totti che scese in campo con la maglia che ne chiedeva la liberazione. Con queste immagini si stabilisce, invece, una equivalenza – non sappiamo neanche quanto volontaria – tra il calcio italiano, la squadra del Napoli, e una vita sacrificata, in un campo differente. In quella maglia c’è una dinamica sociale complessiva che riassume meglio di ogni altro simbolo l’Occidente: attraverso il calcio passano mercato e sentimenti, fino a farsi motivo effimero di scontri virtuali, verbali, reali. L’incongruenza è ritrovarsi quella maglia in un regolamento di conti non calcistico, avulso dal pallone, che diventa vessillo drammatico in una contrapposizione violenta. Per una oscura trama, il concetto giusto diventa indumento sbagliato che accompagna l’ultimo tempo di un uomo.