Il calcio europeo visto da un’altra ottica: un aspetto che non tutti conoscono

“Lui che allunga la mano e si tocca l’America”.
Cantava così Gianna Nannini, esplicitando chiaramente quanto un piacere così personale e intimo potesse combaciare con il piacere degli occhi nel guardare i casinò di Las Vegas e i grattacieli di New York.
D’altronde noi conosciamo il problema, pur continuando a farne parte: la globalizzazione in Europa è diventata sinonimo di americanizzazione. Non troppo lontani i giorni in cui con un paio di pantaloni a vita bassa e una bandana ci sentivamo Biggie e Tupac, sfoggiando una maglietta raffigurante la Statua della Libertà.

Bene, come poteva il calcio esimersi da tale discorso, se più di tutti rappresenta il binomio ‘sport=espressione della vita e della cultura’?
Ovviamente non poteva, perché quando oggi guardiamo con disprezzo Oscar che va in Cina, nonostante la sua giovane età, soltanto per soldi, o più in generale l’operazione di marketing che effettua il campionato cinese non avendo altro da offrire se non denaro, beh allora dovremmo smetterla di addossare tutte le colpe al magico paese d’Oriente.
Perché si, signori miei, anche qui c’entra l’America e il suo global world che è praticamente esploso dal Piano Marshall ad oggi.

Con un minimo di memoria storica riusciamo, infatti, ad affermare senza tema di smentite che il fenomeno dei calciatori che smettono di essere competitivi in cambio di denaro è iniziato nei lontani anni 70 e si è diffuso fino ad oggi, basti pensare a Ibra ai LA Galaxy, o Giovinco al Toronto Fc.
Non è solo questo il dato negativo dell’Americanesimo nel calcio europeo. Si noti bene oggi, infatti, quanto potere contrattuale (spropositato) abbia il calciatore rispetto alla società a cui offre le proprie prestazioni; si osservi bene l’esempio di Messi, che quasi citava il Barcellona in tribunale, Ibra che, a 38 anni, pretende dal Milan 7 milioni l’anno, altrimenti arrivederci; si guardi infine quello che potremmo definire il collante tra questi esempi, l’italianissimo Mino Raiola, che col suo contrattare da zio d’America è diventata ormai, potremmo dire, la figura simbolo dell’invasione americana nel calcio nostrano.
Ahimè, non è finita qui. Vi è mai capitato di pensare ad un calciatore dei nostri tempi e considerarlo una vera e propria macchina da soldi? Ecco, questo è perché oggi i calciatori sono i migliori imprenditori di se stessi, con la loro frenetica rincorsa agli sponsor. A proposito, avete presente l’annosa questione della Lete e la sua toppa rossa sulla maglia del Napoli? Indovinate un po’ da quale cultura deriva.
Sia chiaro, non è che i vari Best, Pelé e Maradona fossero da meno, ma il concetto fondamentale è che la loro esuberanza e fantasia in campo, sfociava fuori dal terreno da gioco solo ed esclusivamente per un loro gusto della vita, un edonismo vissuto all’ennesima potenza, e soprattutto lontano dai riflettori.

Oggi invece, se Ronaldo batte il rigore decisivo in finale di Champions, in quel di San Siro, e nell’esultanza si toglie la maglia, lo fa soltanto per questioni di sponsor, per vendersi ai fotografi, regalando loro finalmente una prima pagina degna di nota.
Oggi Zaniolo, ad appena 21 anni e con ancora tutto da dimostrare, si apre un’impresa edile, esplicitando tutta l’arroganza di fenomeni ancora in erba, ma già ricchi di quel lusso che si sentono addosso fin dal primo stipendio, fin dal primo procuratore che spiega ai genitori che farà le fortune del loro figlio.

Oggi Milik rischia di passare un anno in tribuna e addirittura saltare gli Europei, solo perché, in virtù del potere contrattuale suddetto, pretende la risoluzione delle multe e gli stipendi di maggio, giugno e luglio.
Insomma, il mondo global ci piace e ci diverte col suo multiculturalismo latente.

Ciò detto, l’espressione di un cambiamento porta con sé degli strascichi pericolosi, e infatti non è mica tutto rose e fiori, l’americanizzazione ne è l’esempio.

Luca Linardi

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