Napule è Hamsik e Hamsik è Napule

Un calciatore di 32 anni a luglio, capitano e leader silenzioso, che ha dato tutto al Napoli e di più non avrebbe potuto, che ha scritto pagine indelebili con la maglia che indossata ininterrottamente dall’estate del 2007, che ha eguagliato e battuto record, che entra di diritto nella storia del club partenopeo, deve essere messo in condizioni di poter decidere cosa fare. Veramente vogliamo criticare un uomo, calciatore, bandiera che soltanto nella fase finale di una carriera calcistica, in cui indubbiamente ha vinto meno delle sue qualità, decide di andare a prendersi l’ultimo grande contratto della sua vita? I mercenari sono altri e in questa cricca non risiede Marek Hamsik, slovacco napoletano di Castel Volturno, che non se la squaglia, come vorrebbero i più.

Hamsik è Alleria, in contrapposizione e al tempo stesso in assonanza col suo fare schivo, da personaggio mai divo e senza clamori, come il suo addio al cospetto di una platea che meritava di essere gremita per l’ultimo saluto del capitano azzurro. Per dodici lunghi anni, un’eternità considerando i tempi del calcio moderno che non lasciano spazio alle bandiere, la sua presenza ha avuto i connotati di una brezza leggera che arriva però puntuale mentre si è occupati con il pensiero, quasi a tornare indietro nel tempo ai tempi d’oro dei due Scudetti. In effetti, così è stato quando lo slovacco ha battuto il record di Maradona in quel 23 dicembre 2017: goal numero 116 nella storia del Napoli che valse il 3-2 alla Sampdoria. Già, il club blucerchiato, avversario in cui Marekiaro trovò il suo primo goal azzurro ed ha timbrato sabato scorso l’ultimo tabellino con quella gloriosa maglia che ha onorato al meglio, sempre in prima linea, nonostante l’assenza dei connotati di vero leader carismatico.

Hamsik è Je sto vicino a te, lui lo è stato e lo è ancora. È rimasto all’ombra del Vesuvio per quasi 12 anni, rispondendo negativamente alle sirene di Inter (Moratti chiese informazioni al suo omologo De Laurentiis), Milan (Raiola voleva portarlo alla corte del Diavolo) e timidamente Juventus, che l’avrebbero voluto quando il San Paolo ancora non conosceva cosa significasse la melodia dell’Inno della Champions League che fa tremare Fuorigrotta e Posillipo. Il suo amore per la maglia azzurra è una condivisione di intenti, pensarla allo stesso modo, donare sé stesso per ricevere altrettanto. E la risposta della piazza non si è mai fatta attendere. Così i suoi periodi no venivano accantonati dalla sua rabbia agonistica, che gli ha permesso sempre di superare i momenti difficili. E allora diventa inutile parlare sempre delle stesse cose: è un pretesto per arrabbiarsi, ritrovarsi ogni volta con lo stesso fervore di chi si è dannato ad ogni partita sul campo o in panchina per capire dove trovare il bandolo della matassa, sbrigliarla, portare quindi il Napoli in alto fino a sfidare apertamente lo strapotere della Juventus e batterlo laddove era possibile.

Hamsik è Quanno chiove. I suoi goal e le sue immense giocate, come l’acqua del grande Pino Daniele, si traducono in liberazione e speranza che l’aria possa realmente cambiare. Il coast to coast contro il Milan in quel famoso 3-1 per gli azzurri, ha dato la possibilità a noi tutti di voltare pagina, di sorridere di nuovo, di vivere appieno il paradiso della nostra fede calcistica. Ha probabilmente significato lo step definitivo verso una nuova fase posteriore alla risalita dall’inferno della Serie C1. Quella rete è il simbolo di un inno alla vita con tutte le sue sfumature, in particolar modo quando si ha il coraggio di viverla senza aver paura di fallire. Hamsik ha forse vissuto in modo inconsapevole la sua esperienza nel Napoli trovando la poesia in ogni minima cosa, al pari del suo movimento che ora metterà a disposizione della platea cinese, il controllo di palla spalle alla porta già proiettato verso una nuova azione, effettuato in ogni posizione del campo, con una rapidità di pensiero sapiente e raffinata, perfezionata nel tempo.

 

Hamsik è anche Carte e cartuscelle, suo malgrado. Con la sua partenza finisce un’epoca, la storia d’amore è eterna ma si chiude sul campo, è arrivato il momento di andare avanti, fino in fondo, perché gli obiettivi chiamano e il gruppo guidato da Ancelotti non può mancare al grande appuntamento dell’Europa League. Ci siamo sentiti strani al triplice fischio finale di sabato sera, le voci si sono prodotte insistentemente, siamo rimasti disorientati da altre sirene – quelle cinesi – cui richiamo è diventata quasi una liberazione per il capitano, consapevole che il cerchio si era ormai chiuso. Ognuno deve andare per la sua strada, anche se il dolore è così forte da farci impazzire. Provare una nuova esperienza è lecito, farlo in parabola discendente della propria carriera è legittimo, ma soprattutto dopo aver sposato e dato tutto per la causa azzurra è una richiesta che non si può rispedire al mittente.

Hamsik è Napoli e Napule è Hamsik. Negli ultimi anni solo poche personalità hanno realmente capito quali fossero le esigenze di un intero popolo; fa strano ammettere ed affermare che a riuscirci sia stato uno caratterialmente diverso da Napoli e la sua frenesia, da Reja a Mazzarri a Benitez, da Sarri ad Ancelotti. Marek non può essere paragonato alla figura di Masaniello, preferisce vivere nella penombra, ma è lì che ha formato un’identità che paradossalmente sposa la voglia nel tifoso partenopeo di ricercare un profilo antipodo, dal carisma latino tipico dei sudamericani. Non è un caso nella storia del club azzurro siano stati moltissimi sudamericani – capostipite non può che essere Maradona – a riscaldare il cuore dei tifosi. A suo modo, l’ha fatto anche Hamsik. Perché ha mantenuto i piedi per terra ed ha saputo essere protagonista in un contesto da egli stesso scelto, perché tutti nella città di Partenope desiderano essere un giorno come lo slovacco.

Perché come ha scritto e sentenziato un altro storico capitano azzurro, Paolo Cannavaro, il nome di Marek Hamsik risuonerà in eterno tra i vicoli della città di Napoli. E non solo.

 

Andrea Cardinale

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